DENARO,  DESIDERIO.  
        ANDROCENTRISMO (1)  
      Gianandrea Franchi   
        
      I 
      Ciò che distingue  da ogni altra la forma sociale chiamata capitalismo è il suo organizzarsi  intorno al dominio della ricchezza astratta, il cui valore è posto in termini  monetari. Il denaro è quindi la misura del valore sociale. La ricchezza  monetaria, però, si alimenta del concreto dispendio dell’energia vitale dei  corpi degli uomini e delle donne che producono oggetti il cui valore è definito  in denaro: le merci. Ma, inoltre, si nutre anche dell’insostituibile “lavoro  ombra” e dell’attività, delegata prevalentemente alle donne, che riproducono e  curano la vita in modi che il potere economico non può permettersi di riconoscere,  pena il fallimento della stessa economia monetaria. Lo scopo del capitalista -  oggi più che mai - non è, però, la ricchezza materiale prodotta dal lavoro  concreto, da cui, peraltro, non può prescindere. E’ la ricchezza monetaria. “Ci spremono e poi se ne vanno”, constatava uno degli operai in  lotta contro la chiusura della Electrolux, di fronte alla sede italiana della  multinazionale. L’economia (capitalistica: ma non ne esiste un’altra, perché  non si chiamerebbe economia) è sussunzione di tutte le forme e modi di vita, umana,  non umana e ambientale, più che alla stessa produzione di merci, al denaro come dispositivo di comando sulla vita e forma generale delle relazioni  interumane e ambientali.  
      La peculiarità del denaro sta nel suo rapporto con il desiderio.   
        Il  desiderio è l’effetto della condizione ontologica dell’essere umano, per cui la  relazione con gli altri precede e fonda quella con se stesso. Da ciò, la  primordiale esigenza culturale di essere riconosciuto e di riconoscere l’altro.  La nozione di desiderio indica anche il carattere temporale e storico della  soggettività, la pro-tensione rischiosa verso il futuro. Intendo dunque con  ‘desiderio’ il rapporto singolare di ciascuno con la costitutiva dimensione relazionale e temporale della propria  soggettività. E’ questa dimensione a  renderlo illimitato: non è desiderio di questa o di quella cosa, ma in ultima  analisi di amore, cioè di essere. Il desiderio di cose, di oggetti, è derivato  e trasposto rispetto al desiderio di relazione. 
        Il  sociologo francese Maurice Halbwachs osserva che la caratteristica generale del  denaro sta nell’aumentare. A  differenza della ricchezza concreta, che ha pur sempre a che fare con limiti di  fruizione, la ricchezza in denaro tende intrinsecamente all’illimitato. Nella  sua Filosofia del denaro, Simmel  coglie efficacemente questo aspetto importante: 
  “Il  denaro può psicologicamente diventare un valore assoluto in quanto non deve  temere il proprio dissolversi nel relativo”; “Soltanto il denaro non contiene …  quella misura interna che costituisce un limite del desiderio dell’oggetto”,  (Simmel, 347, 473).   
        Al  desiderio il denaro offre il piano inclinato della sua illimitatezza, tipica  delle serie quantitative, che è riduzione della qualità alla quantità: il  principio dell’astrazione (dal corpo, dal vivente). Hayek definisce astratta  quella norma che “debba applicarsi a un  numero ignoto di casi futuri”: dove appare la funzione dell’astrazione  quale mezzo di rassicurazione per il  futuro (Dardot e Laval, 264). E’ qui uno dei punti di giunzione del  fondamentale rapporto del denaro con il tempo: con il futuro, con l’imprevedibile,  con il rischio. Secondo Jeremy Bentham,  
  “il  rapporto al tempo non è assolutamente naturale … l’avvenire è una creazione  istituzionale: dipende prima di tutto dalla sicurezza, senza di cui non è possibile concepire nessuna speranza  di godimento futuro” (Dardot e Laval, 126).  
  Sicurezza significa sine cura, senza preoccupazione. Ma cura si declina anche come  curarsi di sé, dell’altro. La traduzione inglese di cura, care, mi ricorda il motto di don Milani: I care, io mi preoccupo, di me, degli altri, del mondo in cui vivo,  me ne occupo, ho cura di esso. Il denaro toglie la cura, delega a una sorta di  meccanismo, cioè a un sistema di ripetizione allargata, riduzione della qualità  alla quantità: il futuro sarà teoricamente come il presente. Il tempo diviene processo  lineare di aumento di quantità, che esorcizza la qualità, il corpo,  l’imprevisto, il rischio. A modo suo, ricorda la funzione rassicurante che ha  la ripetizione: il battito del cuore materno sul feto, la nenia, la ninnananna.  Gli automatismi sono necessari per vivere - ciò che Bourdieu chiama gli habitus -, la quotidianità è piena di  automatismi. Rassicurano chi è in condizioni di particolare fragilità: gli  anziani, i malati, le persone sofferenti (2).  La possibilità di ripetere assicura continuità – l’orologio. Il meccanicismo  settecentesco considerava la natura come un grande orologio. Senza una  continuità, cadremmo nel caos, ma l’eccesso di dispositivi di continuità tende  a soffocare l’esistenza. Il dominio culturale del denaro assolutizza la ripetizione  quantitativa, ne fa l’unica sua dimensione. L’astrazione è una forma di ordine  spinto a un’estrema riduzione della complessità. *Secondo Arjun Appadurai, oggi  “il segno diacritico emergente [è] il  dominio di tecniche e mentalità orientate alla manipolazione del rischio o alla  resistenza a esso, intesa come manipolazione statistica di qualsiasi e di tutte  le incertezze della vita” (Appadurai, 10). 
        In  tal senso, il denaro è anche un dispositivo immunitario, simile a quelle forme  di immunità che si rivolgono contro il corpo e lo uccidono. Ma si tratta di un  dispositivo che attira ed eccita il desiderio con il carattere illimitato della  sua quantificazione.  
        Il  segreto del denaro è il rapporto sottile con quella dimensione fondativa  dell’esistenza e della vita che è il tempo, in quanto ne sposa il duplice  carattere di istantaneità e di durata.  Lo nota, con molta finezza, ancora Simmel: 
  “Questa  duplice esigenza, apparentemente contraddittoria, in base alla quale ogni  momento della vita deve essere nello stesso tempo assolutamente definitivo e  assolutamente non definitivo, scaturisce dalla più profonda interiorità in cui  l’anima dà forma al proprio rapporto con la vita e trova, abbastanza  curiosamente, un appagamento, in un certo senso ironico, nel denaro, nella più  esteriore formazione dello spirito, più esteriore perché al di là di tutte le  sue qualità e di tutta la sua intensità” (Simmel, 339). 
      Chi  ha denaro si sente in certa misura sicuro, o meno insicuro, nei confronti del  rischio connesso con l’imprevedibilità dell’esistenza. Il denaro dà una  garanzia di continuità nel tempo. Questa garanzia non è affatto meramente  ‘economica’, ma si riflette sull’autorappresentazione del soggetto e su quella  che gli altri gli rimandano. Se è vero che “il  nucleo del Sé consiste in schemi di regolazione comportamentale e affettiva che  garantiscono continuità all’esperienza” (cit. in F. de Zulueta, p. 179),  possiamo capire meglio l’efficacia antropologica del denaro. 
        Il  denaro ha un carattere di promessa,  di rimando al futuro, al possibile.  Il denaro, anzi, disegna la differenza tra possibile e impossibile.  Evidentemente, per chi non ha denaro, la soglia del possibile si abbassa fino  allo zero: pensiamo ai migranti o anche alle condizioni drammatiche di non  poche persone, in numero sempre crescente, anche nel nostro paese. Non solo in  termini reali, anche - e soprattutto - in termini d’immaginario, di capacità  d’immaginare un futuro sottratto al dominio del denaro.  
        Considerando  la distinzione di Appadurai fra “etica della probabilità” e “etica della  possibilità”, il denaro avrebbe a che fare con la prima, mentre la seconda  rimanderebbe a ciò che chiama il “lavoro dell’immaginazione” da cui dipende “la  politica della speranza”. Il denaro, però, colonizza profondamente il lavoro  dell’immaginazione cui appartiene l’elaborazione di emozioni fondamentali,  quali speranza e fiduci (3).  Chi ha denaro ha speranza per il suo futuro e dà fiducia al prossimo: si coglie  qui il rapporto del denaro con la relazione intersoggettiva e con il tempo,  accennata prima. La relazione e il tempo sono il quadro entro cui si formano e  agiscono le emozioni, i corpi con il loro orizzonte comune, i luoghi, dai quali  si formano gradualmente per astrazione il territorio, lo spazio geopolitico, lo  spazio in generale. 
      Il  denaro costituisce una forma di assicurazione e di controllo  dell’imprevedibilità del tempo, in parte fantasticata ma in parte ben reale.  Ogni società, ogni civiltà, ogni forma di potere deve cercar di istituire un  qualche controllo sul tempo. Il potere, in quanto controllo sulla vita, è  controllo sul tempo. Controllare il tempo, gestire il tempo di una società,  vuol dire agire sull’immaginario, cui è legato il nostro rapporto con il  futuro. Questo è un altro importantissimo elemento del potere del denaro. Il  denaro contiene in-finite possibilità di possesso. “Possedere una cosa significa che essa non oppone alcuna resistenza alla  mia volontà …. Se dico a un uomo che ‘lo possiedo’, ciò significa che egli cede  alla mia volontà” (Simmel, 461). Il possesso appare “come la sfera e l’espressione dell’io” (Simmel) (4),  di un ‘io’ ben individuato secondo il genere. Chi ha molto denaro crede di  possedere il mondo e lo possiede davvero, finché si tratta del mondo delle  merci, che tende a essere (e quasi è) tutto il nostro mondo.La  dinamica storica del capitalismo consiste in “un processo permanente di appropriazione di beni comuni, di una  colonizzazione progressiva di tutte le sfere del vivente, comprese quelle «private»”  (R. Petrella). 
        Il  denaro induce  
  “una  relazione perversa con l’oggetto fondato sull’illusione immaginaria del godimento  totale. Tutto si equivale, si converte in moneta, si negozia. Ma se tutto  sembra possibile, allora tutto è ambiguo, tutto è sospetto perché non ci sono  leggi per nessuno” (Dardot e Laval, 462). 
        La legge è sempre la legge del più forte sul mercato, come oggi  l’esautoramento delle democrazie formali ci mette sotto gli occhi, se siamo  ancora capaci di vedere e non solo di guardare.  
       
       
           
        II 
      Mi  sembra importante capire il rapporto fra il denaro, così inteso, e  l’androcentrismo, ovvero la costante antropologica per cui l’essere umano di  genere maschile si è im-posto come il modello dell’umano, ponendo il genere  femminile in posizione ontologicamente inferiore e iniziando in tal modo una  dinamica di gerarchizzazione degli esseri umani. Da questa dinamica discende  anche un’altra costante antropologica, il razzismo. Androcentrismo e razzismo  vanno insieme, ma il primo è la matrice del secondo.   
  Alcuni  strumenti concettuali di tipo psicoanalitico aiutano a capire un passaggio di  cui la psicoanalisi più di ogni altro campo di ricerca ha fatto comprendere  la  crucialità e che si può enunciare  così: l’uomo ha inventato il potere come surrogato dell’amore - se chiamiamo  ‘amore’ il bisogno primario dell’essere umano, il bisogno-desiderio di essere  riconosciuto che implica, a sua volta, quello di riconoscere. In altri termini:  il potere come surrogato dell’ontologia relazionale dell’essere umano. Il potere,  infatti, fa le stesse cose dell’amore, ma al contrario. Nella sua forma di  denaro, esso lega gli individui con “un  interesse completamente esprimibile in termini monetari”(5) (Simmel).  
        Lo  psicoanalista Jan Suttie, severo e precoce critico della concezione freudiana  dei Trieben, ritiene che dobbiamo 
  “prendere in seria considerazione l’ipotesi  che il bambino possa recare in sé sin dall’inizio tanto la capacità quanto la  volontà d’amore, e che nell’angoscia di separazione e nelle proteste rabbiose  egli si stia incamminando verso due possibili direzioni: nel primo caso aspira  a recuperare quel rapporto d’amore nel quale non esistevano competizione,  rancore o sospetto …, nel secondo caso, il bambino mostra invece di rinunciare  a questo tipo di relazione amorosa spontanea a favore di una relazione alternativa  basata, questa volta, sul potere” (Suttie, 44). 
        Alle  radici del potere e della violenza, precisa la psicoanalista anglo-spagnola de  Zulueta 
        “c’è  soprattutto la disumanizzazione dell’’’altro’; questo processo sembra quasi  intrinseco alla differenziazione dei ruoli maschile e femminile che esiste  nelle culture patriarcali. Il risultato è che i maschi diventano uomini a spese  dell’altro femmina. L’inevitabile conseguenza di un sistema culturale di questo  genere è la creazione dello stampo psicologico dell’abuso sessuale e del  razzismo” (de  Zulueta, 381).   
        La  disumanizzazione dell’altro sembra fortemente radicata e diffusa nelle culture  (ma non in tutte quelle conosciute). E’ la comprensione del carattere  relazionale della soggettività a mostrarci che il ‘potere’ viene dopo ‘l’amore’  e ne è il sostituto – ricorda un poco il neoplatonismo, per cui il bene è  l’essere e il male é solo una sua diminuizione - : “ricerchiamo il potere come tramite per l’amore, e non l’amore come  tramite per il potere” (Suttie, 41).  
        L’essenza  del potere è il possesso, inteso in senso lato come controllo della vita. Il  denaro è l’attuale forma dominante di potere. Il potere è la caratteristica  antropologica del desiderio maschile come desiderio di possesso, di controllo e  dominio sulla vita cioè sulle sue fonti. Questo si vede in tutte le varie  articolazioni storiche del patriarcato e, con estrema chiarezza, nei regimi  autoritari novecenteschi, in particolare nel loro rapporto con la famiglia  (cfr. Paul Ginsborg). Mi pare che si possa considerare la storia della prima  metà del Novecento come una gigantesca e terribile crisi del patriarcato, cioè  della base antropologica dell’autorità e del potere e quindi della forma del  sociale. 
        Il  potere patriarcale era ancora troppo rigido rispetto alla potente dinamica  dell’industrializzazione, troppo limitato da gerarchie inamovibili, da culture  e confini. Il denaro, la cui potenza va oltre il patriarcato propriamente  detto, garantisce l’illimitatezza del possesso. Ma l’onda lunghissima della dinamica  storica che porta al Capitalismo nasce arcaicamente come dinamica di potere  dell’uomo sulla donna, il cui estremo è il capitalismo finanziario, cioè il  denaro che genera denaro. La formula suprema dell’androcentrismo è l’essere  umano, anzi la vita, come capitale. Lo dimostra bene la diffusione della  cosiddetta ‘economia dei big data’,  l’uso commerciale dei dati personali del web: “in fondo è la nostra vita che diventa merce di scambio”, dice lo  studioso di tecnologie della sorveglianza David Lyon(6). 
      Un’altra  caratteristica fondamentale del denaro ci aiuta a capire le ragioni della sua  potenza. Il denaro è la forma astratta dello scambio, ma lo scambio è relazione. Se la relazione è il cuore  ontologico della dimensione umana (e anche ‘postumana’, per dirla alla Rosi  Braidotti), il denaro vi scivola dentro come un liquido corrosivo, rendendola  astratta, impersonale. E’ l’operatore che più facilmente trasforma il desiderio  di relazione, in ultima analisi d’amore, in desiderio di possesso, di potere, sulla  vita. “Possediamo completamente soltanto  il denaro” (Simmel, 469). 
      III 
      Il  denaro è dunque sempre di più il dispositivo di potere per eccellenza. Il  potere non è mai puramente costrittivo e repressivo. E’ prima di tutto  produttivo di soggettività e di relazioni sociali, come, fra altri, ci ha ben  mostrato Michel Foucault. Si intende ‘produttivo’ di soggettività nel senso che  il soggetto acquisisce la sua forma identitaria dentro dispositivi di potere,  appunto identificandovisi. Il potere è messa in forma. Abbiamo visto che è  prima di tutto potere sulla vita: espressione del bisogno elementare originario  di controllare la propria vita e quindi le sue fonti. Immagine centrale del  potere è stata a lungo la divinità, come ci mostra in maniera pregnante la lotta  fra iconofilia e iconoclastia.   
        Concretamente,  potere sulla vita fu, da tempi remoti, potere sulla riproducibilità della vita,  cioè sulla riproduttrice della vita, su colei che era necessariamente  attraversata dal filo della vita, se questa doveva continuare e propagarsi:  crescete e moltiplicatevi. Ritengo che dal potere sulla donna derivi  l’etimologia concreta di possesso,  da cui proprietà. Il carattere produttivo del potere è legato a questa  importanza della ri-produzione. Base dell’arcaico potere patriarcale era  controllare la ri-produzione di as-soggettati al padre. 
        E  qui avanza anche la forma sociale della proprietà. La proprietà ha sempre avuto  a che fare con il potere sulla vita. Nell’antichità possedere la terra voleva  dire, al di là del proprio campicello, possedere schiavi, come mostra l’Economico di Senofonte. Nel medioevo, la  proprietà per eccellenza, il feudo, era direttamente connessa con il potere  politico, derivato dal re, che era un potere sugli uomini che vi abitavano: la  terra non era separabile da chi ci viveva sopra e la lavorava. Con il  capitalismo, proprietà privata in senso eminente diventa la proprietà di ciò  che serve ad organizzare un’attività produttiva, che vuol dire proprietà non di  persone, come nello schiavismo, ma della capacità-possibilità di consumare  forza-lavoro. 
        Possesso  deriva da potis, padrone, che deriva  da potens, che può, e sedere, risiedere. Possedere è risiedere  nel proprio possesso, identificarsi con il possedere. Potere è possesso nel senso in cui si dice anche  oggi possedere una donna, che vuol dire anima e corpo, non solo sessualmente –  non si possiede una sex-worker -,  possederne la soggettività, averla a disposizione, com’era del pater familias. Il potere è potere sulla  vita: tu sei mia! Anche il figlio era in pieno potere del pater familias: era suo. Il potere mostrava un eminente carattere  ri-produttivo. Da questo possesso originario deriva la proprietà di ‘beni’, che sono però in funzione del possesso e del potere, altrimenti avrebbero dei limiti, mentre caratteristica del  potere ‘economico’ è l’illimitatezza.  
        C’è  da aggiungere, però, una notazione importante. Se questo tipo di possesso è,  come ritengo, la matrice dell’individuo possessivo e quindi del possesso e  della proprietà, è evidente che esso ha anche una qualità assolutamente  peculiare, perché la donna è colei che genera anche l’uomo. E’ un possesso  quindi complicato e sfuggente, colmo di ambigue emozioni, divenuto sempre più  complesso ed elaborato nella modernità, perdendo (in parte) gli aspetti più  crudi, mentre aveva grande sviluppo quella dimensione affettiva fondamentale e  concettualmente inestricabile che Lea Melandri chiama il sogno d’amore, il  quale, come dice Paul Ricoeur, ci tiene in “preda  alla nostra infanzia”.  
        Il  possesso quindi implica una complessità rimossa o denegata che lo accompagna e lo  agita sempre. E’ il possesso di qualcosa d’impossedibile. Su questa tensione agisce la caratteristica peculiare del denaro:  la sua potenza d’astrazione reale che rende illimitato il desiderio di  possedere. Possiamo chiamare il denaro un operatore del desiderio, in  quanto lo stacca dai corpi, dalle cose. Trasforma il desiderio ontologico di  riconoscimento, cioè di relazioni, così evidente nell’infante e nel bambino,  che dalle relazioni vengono a umanità, in desiderio illimitato e vuoto, il  quale diviene desiderio di una rappresentazione astratta e mortifera della  vita. 
        Se  l’homo patriarchalis è duro a morire,  anche nelle società cosiddette sviluppate, l’homo oeconomicus è il suo disinibito successore, immensamente più  elastico, perché indifferente e spesso promotore di ogni cambiamento dei  costumi, purché porti denaro. Il nocciolo non cambia, l’uomo si definisce come  competitore. 
      Anche nella modernità,  la proprietà non è  mai la semplice proprietà di ‘beni’, ma prima di tutto una forma di relazione personale  e sociale. Secondo John  Locke,  il fondamento della proprietà di  beni è la proprietà di se stessi (self-ownership):  la soggettività è posta in termini di possesso del proprio corpo, inteso, come quarant’anni  prima aveva proposto Cartesio, quale oggetto separato dalla mente (il  corpo-macchina, che l’anatomia aveva scoperto). Qui c’è, con la  preilluministica efficacia delle idee chiare e distinte, una rappresentazione  maschile del rapporto soggettività/corpo, ben diversa dalla percezione storica  femminile del corpo generante e accudente. Il corpo maschile, come qualcosa che  si possiede, di cui si ha la proprietà giuridica e che si utilizza. Forse la  persecuzione della stregoneria è legato alla persecuzione di un corpo  riluttante a entrare negli schemi del corpo anatomico, del corpo cartesiano. 
  “Nelle notizie dei media, le donne sono  principalmente mostrate come quelle che hanno famiglie e sentimenti e  sessualità e corpi e problemi. Gli uomini sono mostrati come quelli che hanno  autorità e status da esperti e potere e conoscenza e denaro” (E. G. Graff,  tratto dal blog di Maria G. Di Rienzo).  
        E’  questa rappresentazione antropologica maschile che orienta l’economia politica,  divenuta poi scienza economica, che oggettiva come un dato indiscutibile, fino  a tentar di matematizzarla, una condizione umana basata sull’appetitus possessivo individuale.   
      Rispetto  alle altre forme di potere, la peculiare potenza del denaro sta dunque nella  sua astrazione. Il matrimonio patriarcale, la schiavitù, lo Stato premoderno,  sono forme concrete di potere, potere sui corpi. Ciò mette in gioco emozioni,  produce rapporti complessi e coinvolgenti, anche nelle forme più violente, più  crudeli, come il rapporto fra torturatore e torturato, che non a caso può  assumere modalità erotiche (viceversa il rapporto erotico può assumere forme di  tortura).  
        Il  denaro invece, come forma più generale  di potere, prescinde dal singolo, anche da chi lo possiede. Non coinvolge  chi lo agisce e chi lo subisce nell’asimmetria dello scambio. Al contrario,  porta all’indifferenza nei confronti del singolare. Perciò è tanto più efficace  e generalizzabile. Denega completamente la complessità cui prima alludevo,  parlando del sogno d’amore. 
        Una  relazione che passa attraverso il denaro assume la forma dello scambio  mercantile. Equipara qualunque relazione a merce, cioè a mero valore di  scambio. Il valore d’uso concreto di ciò in cui il valore di scambio  s’incorpora è secondario. Il valore di scambio toglie l’anima, anche quando è  proprio l’anima che si vuol comprare (nel prezioso significato aristotelico di  forma della materia, cioè di singolo corpo vivente). La mercificazione degli  esseri umani è più generalizzabile di altre forme di subordinazione. Bisogna però  precisare un aspetto di questa mercificazione del lavoro e tendenzialmente di  ogni attività. Non significa che essa avvenga nelle varie forme dello Stato di  diritto a democrazia rappresentativa. Queste forme di società sono il frutto di  compromessi fra capitale e lavoro, dovuto alla capacità del secondo quantomeno  di condizionare il primo, come è avvenuto prevalentemente in Europa. Dove  mancano la forza e la capacità condizionante dei lavoratori il potere dei  detentori di capitale si diffonde inesorabilmente, sino a forme di vero e  proprio schiavismo, come avviene anche sotto i nostri occhi ‘distratti’. Un elemento  di novità degli ultimi decenni è dato dalla valorizzazione monetaria della  ricchezza sociale, mediante dispositivi finanziari, ma anche appropriandosi di  ciò che dovrebbe essere un ‘bene comune’, come, fra l’altro, salute e  istruzione. 
        Di  per sé il capitale è indifferente a qualunque condizione sociale, fosse anche  il lager, la parità tra uomo e donna, il matrimonio omosessuale, la famiglia di  tipo indiano o islamico, i diritti delle sex-workers o la tratta del sesso,  purché inseriti nel flusso che produce denaro. C’è poi la funzione ideologica  cui assolve il denaro, in quanto mezzo di scambio ed equivalente generale,  occultando efficacemente – si potrebbe dire rimovendo o denegando – la realtà  dello scambio ineguale fra lavoro e capitale. Su questo occultamento si regge l’immaginario  del ‘libero mercato’, come forma dominante di socialità, cui è sotteso tutto il  tessuto emotivo-corporeo del fondamentale plesso potere-possesso-proprietà. 
      Il  denaro è dunque forma astratta di potere, nel preciso significato di “astrazione reale”, ovvero di capacità  di produrre dispositivi di comando che, mentre generalizzano la subordinazione,  astraggono dei rapporti concreti sui quali si basa la vita. Tra subordinazione  e astrazione c’è un rapporto diretto: ogni atto di subordinazione implica  un’astrazione dalla concretezza singolare del subordinato. 
        Produrre  astrazione reale significa porre i rapporti concreti fra esseri umani, fra  esseri umani e altri viventi, fra esseri umani e matrice ambientale, in termini  che prescindono dalla loro singolarità, individualità, peculiarità; in termini  puramente funzionali a uno scopo a essi esterno e determinato da chi questa astrazione  produce, da chi detiene il denaro, il cui scopo peraltro è, monotonamente, quello  di produrre sempre più denaro (avvenga ciò mediante produzione di beni, di  servizi o di denaro che produce denaro). Così un lager nazista è ‘economicamente’ irrazionale perché il suo scopo è solo  la distruzione di esseri umani, mentre lo sfruttamento di tipo coloniale, fino  allo sterminio d’intere popolazioni (da qui la contrapposizione tra liberismo e  nazismo, Churchill e Hitler) o una fabbrica di tipo ‘indiano’ o ‘cinese’ (tanto  per intenderci), di cui si sente parlare solo quando scoppiano disastri,  rientra nella razionalità del calcolo di costi e profitti. 
        Per  dare una facile immagine al concetto di astrazione reale, uscendo dall’  ’economia’ in senso stretto (ma in realtà non ne usciamo), pensiamo al  ragazzotto in divisa che, seduto comodamente in un ufficio dietro un computer,  gestisce i micidiali droni come in un videogioco. Questo tipo di guerra non è  meno violenta di quella dell’assalto alla baionetta, ma è molto più corruttrice perché basata sull’indifferenza, che è l’effetto più grave dell’annientamento della relazione. In  fondo, siamo alla banalità del male di Arendt, in forma più tecnologicamente  sofisticata rispetto ai tempi di Eichmann. Tutto sommato, l’immagine di cui  sopra sfiora quella della famigliola, a cena davanti alla televisione, che  assiste a scene di guerra o di bambini dalla pelle scura mezzi morti di fame.  
      Marx  indicava, molto efficacemente, la peculiare violenza della società capitalistica  o di mercato con la pregnante nozione, non metaforica, di ‘prostituzione  generalizzata’:  
  “La  prostituzione è soltanto  un’espressione particolare della  generale prostituzione dell’operaio e poiché la prostituzione è un rapporto non solo di chi è prostituito ma  altresì di chi prostituisce – la cui abiezione è ancora più grande – rientra in  questa categoria anche il capitalista” (Marx, 322 n.) (7).  
        Il  carattere sessuale di questa metafora non è casuale ma sostanziale. Quasi  sessant’anni dopo, Georg Simmel ritorna sulla questione, mettendo in rilievo il  rapporto fra il carattere di genere dell’atto sessuale prostituivo, in cui “le differenze individuali appaiono eliminate”  e il carattere astratto del denaro, che “esclude  qualsiasi rapporto affettivo”, prescinde da ogni rapporto concreto, con ciò  determinando “un’analogia fatale tra il  denaro e la prostituzione” (Simmel, 537). Nell’astrazione del denaro  permane un sottile odore di sesso. 
      Il  carattere duplice e complementare d’astrazione  reale e di azione efficace del  denaro sull’immaginario sono come le  due branche di una morsa che sta soffocando la vita. 
          Il denaro è dunque la  forma pura e generale del possesso,  che ha nel rapporto di possesso dell’uomo sulla donna la sua forma originaria,  come dimostra ancora oggi lo stupro di guerra, anche al fine di mettere incinta  la vittima per impossessarsi del nascituro, ma che può riguardare anche uomini  vinti, umiliati come donne (ricordiamoci di Abu Grhaib). Il denaro è il sistema  logico del potere/possesso/proprietà divenuto la forma generale di relazione.  
        Il  dominio del denaro riproduce il modello antropologico dell’individuo  possessivo, che è insieme seriale e antagonista nei confronti di tutti gli  altri individui - individuo e non  singolo. Il denaro generalizza l’ingeneralizzabile: la singolarità  dell’individuo e con ciò la toglie, riducendola a serialità. 
        Nella  sua riflessione sul “carattere sessista  dell’economia”, Ivan Illich parla del “carattere  possessivo” come “tratto comune  essenziale dell’individuo, base di tutto il pensiero democratico moderno”  che si esprime come “individualismo  invidioso” (Illich, 40-41); mentre Dardot e Laval ribadiscono che “è l’antropologia dell’homo oeconomicus che  fornirà la chiave universale, il fondamento ultimo della grande costruzione normativa  della società moderna” (Dardot, Laval, 113). Antropologia squisitamente  maschile. 
      Nella  letteratura questo aspetto del denaro ha prodotto la figura dell’avaro, che  accumula per accumulare, per fantasticare sulla ricchezza come onnipossibilità.  Tale fantasticare è realizzato dal finanziere che scambia continuamente denaro  (elettronico), provocando con stratosferica indifferenza danni vitali a intere  popolazioni e territori, non certo per i mediocri piaceri di un’esistenza nel  lusso, che non può superare i limiti del godimento fisico. La potenza del  denaro è politica, è il potere politico per eccellenza, il governo possessivo  di una polis allargata a tutto il mondo.  
        Il  potere è la forma antropologica androcentrica di riconoscimento basata sulla competizione e sulla gerarchia.   
      La  forma originaria, la matrice antropologica, del possedere sarebbe dunque il  possesso dell’uomo sulla donna, che ri-produce la vita. La radice del desiderio  di possesso non è il possesso di beni ma il possesso di esseri umani, anzi il possesso della vita, e quindi di chi  specialmente riproduce la vita.  
        Oggi,  la pervasività dei modi di possesso della vita fa venire in mente la freudiana  pulsione di morte. Ritengo che il rapporto potere/possesso acquisti luce se pensiamo  che il rapporto uomo/donna ne sia la forma originaria. E’ storicamente  dimostrabile il passaggio - sufficientemente documentato dallo studio sul campo  delle poche società rimaste almeno fino a buona parte del Novecento – dalle  società di caccia e raccolta, in cui c’era parità effettiva fra uomo e donna e  non esisteva il dispositivo di un potere separato, alle società agricole, in  cui compaiono, contemporaneamente, e la subordinazione della donna e la  fissazione di un potere separato: a mostrare che i due aspetti vanno insieme. 
      Fino a che  rimarrà dominante l’antropologia sociale del denaro o capitalismo, ogni azione  per pari opportunità di genere e sessuale rimarrà all’interno della sfera  androcentrica, anche considerando che oggi lo stato del mondo evolve verso  forme di governance sempre più  elitarie.  
        E allora -  ci disperiamo?  
  Una critica radicale non porta mai alla disperazione chi non si vuol nutrire di fantasie proiettive o di imagination combleuse (Simone Weil). Piuttosto è la mancanza di  pensiero critico che porta a forme di disperazione, più o meno rimossa, che si  esprimono nella ricerca ossessiva delle più varie forme d’identità. Kierkegaard  diceva che il più disperato è colui che non sa di esserlo. Appadurai tpropone  una formula abbastanza efficace: “un giusto equilibrio fra utopia e disperazione”. 
        Il discorso  per me si sposta sul terreno del senso. Il senso è l’ambito in cui la singola  esistenza e la storia collettiva cercano questo equilibrio - instabile, però,  mai compiuto. ‘Senso’, inteso come direzione da dare alla propria esistenza.  L’unico modo per dare senso alla propria esistenza è l’azione collettiva  pensante, con pochi o molti, immaginando-pensando possibilità alternative di  mondo, indipendentemente dalle probabilità di realizzazione; partendo con uno  sguardo locale, rivolto cioè  a persone  e luoghi singoli. E’ anche l’unico modo per incontrare gli altri, per dar corpo  alla propria costitutiva relazionalità, in termini non d’evasione e di misera privacy.  
        Questo  atteggiamento etico-politico, nei momenti bui come questo lungo presente, deve  privilegiare l’etica sulla politica, ovvero agire, nei limiti delle proprie  capacità e possibilità, indipendentemente dalle condizioni date, pur tenendone  conto. L’etica politica si misura nel rapporto fra questa ‘indipendenza’ e  questo ‘tener conto’ delle circostanze storiche. 
      BIBLIOGRAFIA 
      Appadurai  A., Il futuro come fatto culturale,  Cortina, Milano 2013  
      Dardot P. e  Laval Ch., La nuova ragione del mondo, Derive e Approdi, Roma  2013.  
      de Zulueta F., Dal  dolore alla violenza, Cortina editore, Milano 2009.  
      Ginsborg  P., Famiglia Novecento, Einaudi,  Torino 2013.  
      Halbwachs  M., Esquisse d’une psychologie des  classes sociales, 1938.  
      Illich I., Genere 1984, Neri Pozza 2013.  
      Marx K., Manoscritti  economico-filosofici del ’44,  Editori Riuniti 1976.  
      Mondzain  M.-J., Image, icõne, economie, Seuil,  Paris 1996 
      Petrella  R., “Impostura mondiale. Impoverimento e uguaglianza nel mondo negli ultimi 40  anni”, banningpoverty.org 
      Simmel  G., Filosofia del denaro, U.T.E.T.,  Torino 1984. 
      Suttie  J. D., le origini dell’amore  e dell’odio, Centro Scientifico Editore,  Torino 2007 (ed. orig. 1935).  
        
      
        (1) Uso il termine ‘androcentrismo’  (che prendo da Pierre Bourdieu) perché rimanda a un’area semantica più vasta di  ‘patriarcato’.  
        (2) Cfr. Elvio Fachinelli, La freccia ferma, edizioni L’erba  voglio, Milano 1979. 
        (3) Sul dollaro cartaceo campeggia la  scritta “In God we trust”. 
        (4) Ancora Simmel nota, in relazione  agli antichi testi dei Veda, “la profonda  relazione tra possesso e procreazione”. 
        (5) Notare che l’etimo letterale di  inter-esse mette in evidenza la relazione. 
        (6) Intervista al “Manifesto”, 28  febbraio 2014. 
        (7) Oggi dobbiamo allargare le parole  ‘operaio’ e ‘capitalista’ a molteplici attività, non comprese nel significato  tradizionale di queste classificazioni sociali. 
     
    11-3-2014  |